Da agosto il Decreto Dignità è legge: dal giro di vite sui contratti a termine alla lotta alla delocalizzazione, ecco le principali novità di un provvedimento che sta già facendo discutere e non poco. Sacrosanta l’intenzione di tutelare la dignità del lavoro e la produzione entro i confini, ma come reagiranno mercato e imprese?
Decreto Dignità, quali le ripercussioni per le imprese?
Ci siamo: dopo mille tensioni, speranze, timori, polemiche e immancabili voci pro e contro, a inizio agosto il cosiddetto “decreto dignità” (dl 87/2018, recante disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese) è diventato legge. Pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 11 agosto, dal giorno successivo la legge di conversione n. 96/18, che in sostanza conferma il testo del decreto, è entrata ufficialmente in vigore.
Cambia il sistema dei contratti
È dunque il caso di vederci più chiaro, partendo proprio dalle (ennesime) rilevanti modifiche alla disciplina dei contratti, e più in generale al mercato del lavoro, che rappresentano uno dei “piatti forti” del nuovo decreto. Anche perché si tratta di misure che con ogni probabilità avranno un impatto significativo sul comparto industriale, a partire dall’affollata galassia delle Pmi del settore, spesso le realtà più colpite, nel bene e nel male, da ogni “cambio di vento” normativo.
Diciamo subito che l’attenzione del legislatore si è focalizzata soprattutto sui contratti a termine, ancora piuttosto utilizzati dalle piccole e medie imprese, che stando alla ratio legis dovranno assumere una portata residuale rispetto al tempo indeterminato. Fin qui nulla di nuovo: senonché, a differenza di precedenti interventi in questo senso (dalla Legge Biagi al Jobs act renziano), stavolta l’idea di fondo è quella di perseguire tale risultato attraverso l’irrigidimento della flessibilità contrattuale in entrata, a cui si aggiungono penalizzazioni per quella in uscita: in soldoni, contratti meno morbidi per chi assume e briglie più strette per chi recede. È la strada giusta? Al tempo – e al mercato – l’ardua sentenza.
COME CAMBIA LA DISCIPLINA DEL LAVORO |
Contratti a termine: La durata massima scende a 24 mesi. Dopo il primo anno possono essere rinnovati di altri 12 mesi con causali. |
Assunzioni a tempo indeterminato: Sgravi fiscali per l’assunzione di giovani fino a 35 anni con contratti a tempo indeterminato con tutele crescenti. |
Contratti di somministrazione: Tetto massimo al 30% dell’organico aziendale, aumento dei contributi dello 0.5% ad ogni rinnovo contrattuale. |
Licenziamenti illegittimi: Indennità sale a 36 mensilità con minima da 4 a 6. Le tempistiche per l’impugnazione salgono a 180 giorni dalla cessazione del rapporto. |
Lotta alla delocalizzazione: stop ai benefici, sanzioni
Da analizzare con attenzione anche le misure dedicate al contrasto alla delocalizzazionee alla salvaguardia dei livelli occupazionali, con cui si cerca di limitare l’emorragia di delocalizzazioni produttive in Paesi extra-Ue, che tanto male ha fatto e continua a fare alla nostra economia. Il decreto, all’art. 5, prevede che, fatti salvi i vincoli dei trattati internazionali, le imprese operanti sul territorio nazionale che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio, decadano dal beneficio qualora l’attività economica venga delocalizzata in Stati non Ue entro 5 anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata. Inoltre, in caso di decadenza, l’amministrazione titolare dell’aiuto accerta e irroga una sanzione amministrativa da due a quattro volte l’importo dell’agevolazione fruita.
Addio iperammortamento
Ma la delocalizzazione, insieme alla cessione dei beni, viene scoraggiata anche agendo sul pacchetto di agevolazioni del Piano industria 4.0, in particolare sul cosiddetto “iperammortamento” previsto, come si ricorderà, dalla legge 232/16 (Bilancio per il 2017): l’articolo 7 del decreto precisa che l’agevolazione spetta a chi opera sul territorio nazionale: dunque se i beni agevolati vengono ceduti a titolo oneroso o destinati a strutture produttive situate all’estero, anche se appartenenti alla stessa impresa, si procede al recupero dell’incentivo attraverso una variazione in aumento del reddito imponibile per un importo pari alle maggiorazioni delle quote di ammortamento complessivamente dedotte nei precedenti periodi d’imposta. In pratica, in caso di cessione a titolo oneroso o di delocalizzazione all’estero degli investimenti, l’impresa è tenuta a restituire la maggiorazione già fruita. Le disposizioni si applicano agli investimenti effettuati dopo il 14 luglio.